venerdì 26 aprile 2024

Se strappare la Pace è una ragazzata

Nel giorno della Festa della Liberazione, di buon mattino, mia madre va a prendere le bandiere dell'Italia e della Pace, fresche di bucato, per appenderle fuori casa. 
Il tricolore è nuovo: quello che avevamo era ormai sbiadito dal tempo. E anche quella multicolore, che nei cortei qui in zona è la prediletta dei bambini, ha colori vivissimi. Alla fine si opta per la cancellata, all'esterno, sulla pista ciclabile. Una accanto all'altra. E si va in corteo per le strade, con la Banda e la Corale, tra Bella Ciao e passeggini, grandi e piccoli, personalità e personaggi. Insieme. 

Nel pomeriggio, però, la bandiera della Pace viene strappata via. Un vicino si accorge, ferma questi adolescenti e li invita a riconsegnare la bandiera. Suona il citofono e la reazione è una sola: stupore. 
"Una bravata". I bravi moderni si accaniscono sui simboli. 
Una monelleria. I monelli, una volta, facevano telefonate anonime e suonavano citofoni. Posto che la prima attività sulla ghiera o sulla tastiera sono ormai obsoleti, anche la seconda non se la passa troppo bene.

Di cretinate senza senso ne è piena ogni epoca, anche se ora faccio fatica a farci un mezzo sorriso. Sarà che attività varie come bruciare giochi pubblici appena installati, spaccare panchine nuove o buttare spazzatura ad un niente dal cestino non dimostrano nulla, se non un cervello ancora riposto nella sua pellicola protettiva. Strappare una bandiera della Pace, forse, ci dice che il cervello è ancora nell'imballaggio di cartone. 

La noia? Forse è il momento di chiamare questi vuoti di valore con il loro nome. 



martedì 23 gennaio 2024

De Calcio: complemento di mancanza, non di argomento

I fischi. Monocorde, fastidiosi, prolungati. In un minuto di silenzio a un campione dello sport, l'idolo della mia mamma che di calcio, da ragazzina, non sapeva nulla, ad eccezione di Gigi Riva. 

Non rimane attaccata "ciccia" all'operazione Arabia Saudita della Supercoppa, che si ripeterà ancora, questo è certo. Resta la vittoria sul campo di una squadra, quella sì. Un campo che sarebbe potuto essere sulla Luna, per questo senso di fuori luogo che a freddo ereditiamo all'indomani. Il gesto sportivo svuotato di tutti gli altri significati che il calcio, in Italia, fin dalla sua nascita ha avuto. 

Più di tutti è il suo valore sociale a venire meno. La voglia di vedersi e andare insieme allo stadio, o al bar, o a casa di amici è adombrata dai costi e dalla visione solitaria, da un modo tutto differente di vedere una partita. Per questo, oltre al risultato, sono i tifosi che hanno affrontato il viaggio i veri protagonisti. Quei pochi irriducibili, con tutti i ma del caso, in uno stadio di indifferenti, colmo solo per la finale, a rafforzamento dell'inutilità delle due partite precedenti. Nella trafficatissima Riyad a tutte le ore del giorno e della notte, come ha sottolineato il telecronista, il parcheggio continua ad essere vuoto, i cori stranamente generici, le interviste ai "tifosi" fuori dallo stadio decisamente ridicole.

Monocorde, fastidiosi, prolungati come i buuu di un altro stadio, anche questo spesso non a capienza piena, ma sapientemente mascherato dai seggiolini tutti colorati. Uno stadio che conosco bene, avendo gestito per qualche anno gli steward, uomini e donne di tutte le età, ma di cui, anche allora, importava un altro piccolo particolare. Allora, il delegato aveva un problema con due categorie, in particolare: le donne e i "negretti". Quando parlavo io mi dava le spalle, ma non smetteva di abbaiare che ce n'erano troppi, da distribuire nei vari settori. Il maschio italiano dell'età di un senatore medio (che in effetti contribuisce a chiudere i lavori per andare allo stadio) minacciato da femmine e balubacherubanoillavoro. 

In questo secondo caso, lo straniamento riguarda un pregiudizio fuori dal momento. Il calcio perde spazio e tempo, due dimensioni che lo rendono completamente inattuale, inadatto per le nuove generazioni, se non per un piccolo particolare: i soldi. Tanti soldi. Montagne di soldi. Multe in denaro, anche. Dove sta la differenza con il passato?, si discuteva con degli amici. In una cosa fondamentale, l'unica: la reazione a questa consuetudine.

E oggi, allo stadio ci vanno ancora i bambini coi loro padri e finché ancora percepiscono i calciatori come idoli, ne sono felici. Poi, in adolescenza, o si coltiva il piccolo campione potenzialmente portatore di denari, o il calcio diventa secondario rispetto a sport che, nel loro circuito, non prevedono compensi di questo tipo, dove si lavora altrove, per arrivare a fine mese, e poi ci si allena. Il rito sta perdendo un'intera generazione, sta perdendo le persone, in favore dei numeri. Ma i numeri non hanno anima. 

martedì 10 ottobre 2023

Sai chi ti saluta tantissimo?

Oggi è la Giornata della Salute Mentale. 
Quella cosa che somiglia sempre di più alla corda dell'equilibrista, senza la preparazione dell'equilibrista. 

Come si fa a mantenere nervi saldi, sangue freddo, e un nervo vago che non fa tremare le gambe e aumentare la nausea? Bella domanda. Se sapessi la risposta, probabilmente abbatterei tutti i costi della mia vita. Ma non la so. E credo che nessuno lo sappia davvero. 
A malapena capiamo cosa ci sta, in fondo alla corda. Qual è il nostro obiettivo? La felicità, è ovvio. 
Ovvio, sì. Ma cos'è, davvero? 

La felicità non dipende da quello che dicono gli altri, cosa la società induce ad essere qualcosa di molto riconoscibile per non diventare un paria, cosa conviene fare, cosa non si deve dire. Se si seguono queste indicazioni invece dell'umano sentire, di quel senso profondo che arriva dall'anima, prima o poi quell'anima emerge, andando a disturbare la frequenza della nostra vita. Questa sinfonia che smette di suonare, già soffocata dal frastuono di quanto si vuole apparire, in equilibrio - eccolo ancora! - con come si vuole essere. E' davvero un panorama che ci intossica. 

Nel mare di legno di oggi è poi difficile chiedere aiuto. Certo, tutti lo consigliano: butta fuori, non tener tutto dentro. Ma fuori dove? Fuori dalla finestra no, casomai ti sentisse qualcuno. Fuori a bere nemmeno, nessuno ha più tempo di uscire. Che poi mica sta bene, dai. Allora, butta dentro, meglio in una stanza insonorizzata. 
Oggi tutti invitano a fare outing. Anche sul lavoro: un sondaggio che ho letto oggi parla del 70% dei lavoratori italiani che sperimenta stress e burnout, e solo il 50% ne discute apertamente con i propri manager. Lo studio è della tedesca GoodHabitz. 
E ti credo, direi. Quando succede, l'aria cambia. Diventi tu il problema, laddove ti hanno sommerso di problemi. E la corda oscilla, violentemente. 

Mettere un piede davanti all'altro è dunque l'unica soluzione. E' un momento, passerà. Circoscriviamolo e concentriamoci sull'equilibrio, tagliando tutto il superfluo, scegliendo ogni giorno, senza condizionamento. 

Perchè, in realtà, abbiamo anche bisogno di questi momenti per andare avanti, migliorare, costruire, per creare. E' qui che cresciamo: altrimenti, la vita sarebbe troppo facile, anche fin troppo banale, senza equilibrio da costruire. Anche se non abbiamo avuto alcun allenatore, già pensare di stare sulla corda è l'atteggiamento più positivo che esista. Nessuno ci ha insegnato ad essere costanti, e forse il segreto della nostra salute mentale sta tutto qui: queste radici che crescono dentro e ci tengono saldi alla nostra anima. Nonostante tutto. 

martedì 3 ottobre 2023

L'acqua salata

La cura per ogni cosa è l'acqua salata: sudore, lacrime, o il mare. Karen Blixen.

Io e Silvia ci siamo sempre volute bene e ultimamente ci sentiamo spesso. In modo asincrono, con messaggi scritti o vocali a raffica che arrivano al mattino presto, la sera tardi. Quando il pulviscolo tossico della vita incasinata in cui siamo immersi si posa e nitidamente riemerge il dolore. La mancanza di un marito che, in una calda mattinata di Luglio, ha scelto una linea ferroviaria e un treno regionale per togliersi la vita. Lei era al lavoro, lui non rispondeva al cellulare. E, una volta a casa, come ipnotizzata, è uscita fino ad arrivare lì, di fianco a quel treno fermo. 

Lui, così aggrappato alla vita. Il teatro, la divisa da arbitro, i giochi sempre diversi inventati per i bambini. Sì. Due figli piccoli. Lui che cucina, che si ritaglia la corsa mattutina prima di quel lavoro che adorava. Detronizzato professionalmente dopo anni di crescita, ha iniziato a scivolare sulle mille sfaccettature della sua esistenza, non riuscendo più a trovare grip. In nulla. Tanto sudore gettato per ridare un senso alle cose che, improvvisamente, lo hanno perso. 

Ci sono argomenti che non si possono toccare. Avvenimenti intorno ai quali non si parla, meglio di no, meglio così. Meglio girarsi dall'altra parte. Non esiste più nemmeno quella consuetudine al "dovere" che spinge a fare quella chiamata. Quella visita. Ai funerali, forse, meglio non presentarsi. Stare in disparte e scomparire. La manifestazione del dolore diventa quasi oscena, meglio nasconderla e, in fretta, dimenticarsene. Lacrime da non mostrare.

Quando una persona decide, di sua volontà, di mettere fine alla propria vita, ci si concentra solo su quest'atto finale. Certo: è quello definitivo. Da lì non si torna più indietro. Dopo quel gesto, è tutto cancellato, tutti i percorsi tracciati si interrompono, e tocca a qualcun altro chiudere definitivamente tutte le possibilità che questa vita, insufficientemente, ha fornito. Anzi, spesso queste possibilità non si vedono più: solo una stanza dalle pareti che si restringono intorno sempre di più, senza uscite di emergenza.  

Qualcuno lo chiama coraggio. O il coraggio della disperazione. Come se il gesto di togliersi la vita sia una decisione di un istante, il consiglio di una notte, una lampadina che si accende - o meglio - si fulmina all'improvviso. No.
Coraggio significa agire con il cuore e non è sempre la soluzione giusta, quando questo viene calpestato più volte. Si arriva al punto di aver la certezza di essere un peso per tutti. I momenti belli vengono vissuti come una breve parentesi che, senza di noi, sarebbero pure migliori. E forse è meglio togliere il disturbo, scrivere una parola fine alle lacrime e al sudore e immergersi in quel fondo che non si tocca mai. 

Silvia si ritrova così, vedova e con due bimbi orfani a cui ha scelto, con la giusta guida, di non nascondere nulla. In questo momento così doloroso deve esserci un solo, grande e incrollabile punto fermo: la verità. Vasta e tumultuosa come il mare, che causa domande difficili da soddisfare, tante lacrime, urla e calci e pugni tirati a un pungiball acquistato per l'occasione. Ha ricominciato a lavorare, scrive una lista di cose da fare tutti i giorni, perché sono tante e ci metterà molto tempo per smaltirle da sola. Un altro mare di incombenze in cui si ritrova immersa, suo malgrado, tutte da ricostruire. 

Come si torna a riemergere da tutto questo? Non da soli. Con un aiuto professionale, con un "come stai" davvero interessato e non di circostanza, e con il confronto. Lei vuole ascoltare le storie degli altri. Lei vuole capire e, un passo alla volta, un pezzetto al giorno, e scrollarsi da dosso un senso di colpa che non è suo. Quel mare nero, seppur così vasto, è difficile da capire davvero. Restano tutte le domande lì, sospese, quasi solide, a fare disordine in casa, a notte fonda, nei momenti di silenzio assoluto. Ma quel confronto le serve, fa ricerche, legge e chiama persone che hanno vissuto un distacco così definitivo. 

No, non se ne parla abbastanza. E' ora di vincere questo pudore.

martedì 5 settembre 2023

Le piume dell'angelo

Ci sono due donne che si guardano negli occhi davanti a una chiesa, quella di Masnago. Sono appena uscite sul sagrato, dopo la Messa e gli avvisi del giovanissimo prete sul Palio delle Contrade. Si tengono per le braccia, si guardano e gli occhi esprimono ancora più delle parole. 

Quella commemorazione esiste da dodici anni, da quando la legionella si è portato via un ragazzo sanissimo. Su alcune delle magliette c'è scritto "Ispettore", fatte quando alla Messa si aggiungeva un minitorneo di basket sempre lì, nel campo dell'oratorio. Da qualche anno, invece, ci si siede a tavola per una salamella, una birra e le patatine. 

Il tempo non cancella nulla.
Semmai, dice una, fa ricordare più cose belle.
Spesso all'improvviso, spesso in un gesto, spesso come un flashback. Ma il senso del vuoto, quello, diventa sempre più grande.
L'una è una compagna di Università di Stefano, l'Ispettore che negli anni più belli ha tenuto insieme il gruppo di studio intrecciando storie vere e inventate. Quel manipolo di persone, quelle radici riconosciutesi nel mare di studenti del 1998, sono diventate una grande pianta. Ognuno ha continuato a crescere senza di lui ma con lui come linfa. Non ci si vede più come prima, ma quando succede, una specie di magia cancella questo tempo che scorre incontrollato.

Quell'una ha trovato nella casella elettronica una serie di mail che Stefano aveva scritto sulla nonna, donna straordinaria, che è riuscito a salutare prima che lei morisse, e delle prospettive di lavoro, dopo alcune parentesi, tra cui una bellissima alla Pallacanestro Varese. E l'altra, la madre di Stefano, ascolta e ricorda. Sul suo viso passano tutti i sentimenti possibili.

E torna a illuminarsi per raccontare una piccola curiosità che si ripete da tempo. Oggi gli ho chiesto un segno, dice. Mi sono rivolta a lui, come se fosse nella sua stanza, ricordando la Messa di stasera. Sono entrata in Chiesa e sul tappetino c'era una piuma. Sai, troviamo tantissime piccole piume.
C'è questa sua amica che le raccoglie e le conserva e me lo dice. Lui le diceva sempre di sorridere, perchè era sempre troppo seria. E lei s'è tatuata sul polso "sorridi". 
Ogni volta che troviamo una piuma sorridiamo tutti. Il nostro angelo lascia il segno delle sue ali. 

Il tempo non cancella nulla. Ma noi lo onoriamo, cercando segni e con tantissimi ricordi per colmare il senso di vuoto che diventa sempre più grande. Della vita non trascorsa insieme, ma vissuta anche per te.

mercoledì 30 agosto 2023

Al lupo, al lupo

Ieri al mercato di via Fauchè ho comprato una maglia di seta scollata. Chissà se "il lupo" approva. Perchè bisogna stare sempre attente, e ogni tanto qualcuno si sente di consigliare alle donne di non provocare. 
Un unico comandamento, valido oggi, come ieri, come nel Medioevo. Occhi bassi, mutismo, zone coperte. 

Provocazione al lupo, si dice oggi. Rammarico, diceva qualche tempo fa il Procuratore di Bergamo, di cui avevo scritto qui, in questo blog. Al di fuori delle metafore (il calcio, la guerra, gli animali, perchè francamente sono un po' stufa) e di ritrattazioni (no, non abbiamo travisato nulla), di buoni consigli ne siamo piene tutte. Nel tempo, mi si è raccomandato di non prendere treni tardi, di non uscire da sola, di non viaggiare da sola (con qualche biasimo a un paio di viaggi con un'amica in Marocco e in Turchia). 
Una volta, ad una cena, una persona a cui tenevo mi ha detto che, se ci sono tanti #metoo, la colpa non può essere degli uomini. 

Il lupo. Chissà se Anna, classe '67, tornata a vivere con la madre per scappare da una storia malata, era scollata, quando il lupo l'ha accoltellata vicino all'auto. Chissà se Giulia, incinta, aveva provocato il lupo, che stava studiando da mesi come far fuori due vite. Magari Sofia al telefono ha detto qualcosa che il lupo non ha gradito, nascosto nel suo armadio. 
Eppure ci dimentichiamo di Brembate e della piccola ginnasta. O del lupo cattolico di Elisa Claps. 
Chissà tutte queste donne, così diverse per età, aspetto, fisicità, cosa hanno in comune per provocare il lupo, se non il solo fatto di esistere. E poi non esistere più. 

Non so cosa ci sia da travisare nel pensiero più stupido del mondo di credere che una donna sbagli a prescindere. La cosa peggiore è che alcune di noi finiscono per crederci, a forza di gridare "al lupo, al lupo". Lo vedo negli occhi della mia vicina, quando mi incontra sulle scale. Che sgrida ogni giorno ad ogni ora la figlia per qualsiasi cosa, a tutte le ore, da quando è nata, mentre il figlio no, è perfetto. 
Liberarsi da una cultura che ci vuole così, in subalternità, è anche questo: liberare le figlie dal fardello delle madri.  

mercoledì 16 agosto 2023

Perchè dovrei meritarmelo.

Scendo molto lentamente dal Rifugio Conca Bianca, primo step dell'ovovia che porta ai primi impianti della Cima Piazzi, toccando i fili d'erba a bordo sentiero con la mano destra.  

La fatica deve aver la funzione di un grimaldello. Chissà quanti tesori troverei, se non mi vincesse così spesso la pigrizia! Le riflessioni migliori, delle vere epifanie di consapevolezza, compaiono come fumetti quando sono costretta a stare fuori dalla mia solita zona di comfort. Quando cambio aria e abitudini, quando faccio fatica, ma resta sempre molto spazio per pensare. 

Ero lì, in frenata da dislivello importante, impegnata a pensare come mettere i piedi usando il più possibile il tallone e - contemporaneamente - sciogliere le rigidità, che la mia mente vaga a come sto camminando sì, ma nella vita. A che punto sono. E, di colpo, cambia la prospettiva, Maledico il fatto che questo non produca accordi, che non ne scaturiscano hit di successo, ma solo pensieri che scrivo qui, poi, senza aver il coraggio di trasformarli in piccoli, solidi, parallelepipedi di carta. 

E' proprio questo il punto: quello che credo di non meritare. No, davvero. Quello che penso non sia neanche lecito pensare. Osar formulare. Pretendere, perfino. In un modo che davvero sembra scandaloso. E ciò che non mi merito non è quello di "aver quello che hanno gli altri", in un gioco di allineamento che mi eliminerebbe dal colore stonato, la nota fuori dal coro, l'essere al di fuori delle righe in un modo del tutto innaturale, perché è vissuto da me e spesso da chi è intorno a me come una forzatura. Ma sta proprio nella naturalità, come quei fili d'erba che sento tra le dita, il fungo che osservo e non so riconoscere e quei piccoli, dolci lamponi che sembra abbiano aspettato solo le mie frequenti soste. 

No. Non è tempo di essere altro, perché non lo sono. Sono perfettamente ordinaria, non ho combattuto guerre importante, personali o a fianco di altri. Vivo nel mio mare di legno come tanti e, come tanti, pago la mia libertà a caro prezzo. Ma, a parte questo, niente di rilevante. Una scrollatina di spalle davanti a un complimento anche piccolissimo. Un imbarazzo di fronte a chi te lo dice. "Te lo meriti", e tu quasi ti giri a scovare il meritevole dietro di te.
C'è però questa consapevolezza a non essere capace di trasmettere une certa vera essenza, magari appuntita come il cardo che trovo a bordo sentiero, ma con quello splendido fiore che lo rende unico. No. Sono una campanula come tanti, ma è come se non meritassi il sole. Ci sono desideri che ho smesso di avere, non per mancanza di fantasia, ma perché lo ritengo un esercizio inutile. 

In un altro scenario, una settimana fa, lungo il Naviglio, questo pensiero era nato partendo da rapporti che si instaurano senza cercarli più, perché semplicemente accadono. Persone che non so ascoltano perché si escludono a priori. E quel fascino che si smette di mettere in gioco perché, tanto, non serve. 

Ecco, piccolo rivolo di acqua ghiacciata: perché ho battuto la ritirata? Ho scoperto i miei rifugi antiatomici (la mia casa e, quando sono via, il sonno) che uso troppo spesso, non quando c'è vero allarme, ma che comunque attivo sempre meno; ma ci sono troppe cose che non ritengo più alla mia portata e le lascio lì. Tesori. Chiusi da una chiave che ho buttato da qualche parte. 

Respiro, eppure manca sempre la profondità. 
Forse è meglio continuare a cercare di scogliere la rigidità in cui mi sono rinchiusa. 
Impiegare la fatica nel modo più utile e guardare. Oltre.
Perchè dovrei meritarmelo, di essere me stessa.